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Leggere di montagna in montagna ha un sapore più intenso, è come espandere in 3D l’esperienza della lettura, compenetrare la storia fissata sulla carta. Così, per la prima “vacanzina” della stagione estiva sulle mie montagne (ormai chiamo famigliarmente così le cime della valle del Lys) mi sono portata un libro dal titolo molto evocativo: “L’inventario delle nuvole” di Franco Faggiani edito da Fazi. L’autore è un conoscitore e amante delle terre alte, già lo sapevo (tra gli altri suoi titoli voglio ricordare il bellissimo volume “Gente di montagna” edito da Mulatero), ma in questo romanzo ambientato in Valle Maira (Piemonte) la sua prosa tocca vette di lirismo puro. A essere sincera, passate le prime pagine da cui si evince questa sua maestria descrittiva dell’ambiente montano, ho affrontato un paio di capitoli che mi parevano avere un ritmo lento con la storia che faticava a emergere. Mi chiedevo dove mi stesse portando la lettura (è sempre così quando ci si immerge davvero in un libro: il lettore è in balia di ciò che legge pur potendo scegliere se e come continuare), non mi sentivo ancora “presa” e soprattutto non capivo quando ci si addentrasse sul serio nell’intreccio. Poi il momento è arrivato: ho afferrato il filo narrativo delle vicende del giovane Giacomo Cordero e il libro non mi ha più lasciato.

Un romanzo dai molti richiami storici, non solo sul panorama della Grande Guerra ma anche sulla vita nei paesini e nei valloni montani piemontesi a pochi passi (metaforicamente parlando) dalla Francia. Al centro vi è Prazzo, ma anche Elva e poi Cuneo con toccate e fughe a Enbrun, Torino e Aosta, per narrare di come all’epoca i commerci corressero su carri trainati da muli o cavalli lungo sentieri e strade impervie. La cosa più interessante, una vera scoperta per me, conoscere il mestiere e le abitudini dei “caviè”, coloro cioè che andavano di frazione in frazione e nelle “grange” (in lingua piemontese, baite con funzioni di magazzino) isolate per tagliare i capelli delle donne (“pels”) da rivendere in Francia per la realizzazione di parrucche. Faggiani ha reso tutto con grande realismo, utilizzando sapientemente anche il lessico per cui si parla ad esempio di “mietitura” riferendosi al taglio della chioma legata a treccia.

Ho camminato con il libro nello zaino per leggerlo nelle frazioni di Issime, specialmente su una panchina a Rickurt. Ogni tanto alzavo lo sguardo sul verde dei boschi davanti a me, osservavo lo spuntone del Pirubeck che si erge caparbio come lo spirito della gente che vive in alto, e sentivo riecheggiare la montagna. Mi sono lasciata travolgere dalle vicende dei Cordero, famiglia di commercianti intraprendenti e rispettati che ha saputo sfruttare le necessità dell’esercito per espandere gli affari. Al centro vi è Giacomo, che ha studiato a valle presso un sacerdote ma poi è tornato a casa per assecondare la volontà del nonno Girolamo, un tipo burbero che mette al primo posto il lavoro e che insegna al nipote il mestiere di “caviè”; lui che si chiede cosa desidera davvero fare nella propria vita. Sotto lo stesso tetto vi sono la saggia Desideria sposata da Girolamo in seconde nozze; la timorosa Lunetta, madre di Giacomo, che fatica a lasciar andare il ricordo del marito morto in miniera all’estero, e poi da Oltralpe arriva l’esuberante Natale Rebaudi che porta una ventata di allegria e riequilibra il gioco delle parti ricordando a ognuno il proprio compito. Il ritmo è dato dai viaggi e dal cammino su per i monti, le svolte dagli incontri, alcuni dei quali segnano e tornano.


Gente semplice e concreta, chi vive in montagna ribalta il punto di vista di chi vive in pianura. All’inizio di una camminata, dopo il centro di Gressoney Saint-Jean, un’anziana signora (volto dolce e una grande crocchia sulla testa) seduta su una panca davanti a una casa mi saluta e mi dice: “Va in montagna?”. Sono rimasta un secondo spiazzata pensando che ero già in montagna, poi ho capito: lei intendeva la montagna dove si fatica, dove si va in salita seguendo una stretta via rubata ai prati o alla roccia, che porta a orizzonti più alti, non i paesi e le cittadine con strade e vie comode. “Sì, vado su” le ho risposto. “Io abitavo ad Alpenzu, eravamo rimasti pochi abitanti, troppo pochi. Vedrà che bello là”. In questo momento (ma non solo in questo) ho sentito un po’ mio lo stupore che spesso abita il personaggio di Giacomo: come scrive Faggiani, “stupirsi è fare un piccolo volo oltre la realtà”. Anche io amo puntare lo sguardo verso il cielo e scoprire le nuvole piene di forme e mosse dal vento. Chiunque può fare il proprio personale inventario delle nuvole riuscendo così a proseguire il cammino con rinnovato vigore…   

Ogni anno nuovo incomincia con una lista di buoni propositi, una di progetti e una di cose belle che mi piacerebbero. Almeno per me. Le tre cose sono di sicuro legate tra di loro e scriverle in forma di elenco da una parte mi aiuta a visualizzarle meglio e dall’altra mi lascia l’opportunità di espanderle a piacere.
In verità ho sempre scribacchiato liste per lavoro sul planning (dal classico “to do” alle scadenze passando per gli articoli da scrivere e le novità in libreria da seguire) e il metodo con il tempo si è affinato (ad esempio adoro usare colori, metto sigle e nicknames, attacco post-it)… quando poi su Instagram mi sono imbattuta in @lascianca (Simona Sciancalepore) ho provato che anche grazie alle liste si libera la creatività. Non lo nego, da lista nasce lista spesso e forse questo appartiene un po’ al mio essere una “bilancina”, ma continuo ad amare la narrazione lunga e la forma discorsiva che prediligo anche su quel diario in cui appunto le liste a inizio anno.

Premessa fatta, ora vengo al punto. In una delle tre liste c’era riprendere a scrivere con regolarità su questo blog, a cui tengo (le idee son sempre tante e la mia “latitanza” è davvero solo questione di tempo perché qua e là conservo notes e file di appunti), e in un’altra lista c’era tornare al cinema a vedere un bel film. Ecco, posso mettere la spunta. Fatto!

Non tornavo in una sala cinematografica da prima del periodo di pandemia da Covid, dal Natale 2019. Non ne faccio una questione di mancanza, ho saziato un po’ la curiosità con film e serie rintracciabili in streaming. Però, tornare in una sala di fronte a un maxischermo e percepire il silenzio partecipato del pubblico presente è una bella sensazione. Avrei forse potuto riprendere prima le piacevoli uscite al cinema. Comunque, sono tornata per vedere un film tratto da un libro che ho molto amato, che amo (perché nessun libro termina nel momento in cui finisce la lettura) e che mi ha lasciato una grande eco. Le otto montagne, dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti pubblicato da Einaudi nel 2016 e vincitore del Premio Strega nel 2017.



L’ho letto due volte: la prima quando Cognetti si aggiudicò il premio, spinta dalla curiosità editoriale, dalla stupenda copertina e da alcuni consigli. Mi era piaciuto per la prosa ricca di descrizioni autentiche e dalla storia dai sentimenti forti. Da allora il mio legame con la montagna (in particolare con quella valdostana) è cresciuto e mi sono ritrovata “vicina di vallata” con i protagonisti: la storia è ambientata a Grana, che sarebbe Graines, in Val d’Ajas, dove vive l’autore. Durante le vacanze natalizie 2021 l’ho ripreso in mano e terminato proprio sui miei monti, nella Valle del Lys. Ricordo che mi pareva di percorrere i sentieri con Pietro e Bruno e di vivere alla barma (chissà se ne sarei davvero capace, di vivere in modo così spartano ad alta quota, intendo). In ogni pagina si sente forte il respiro della montagna. È una lettura immersiva, intensa e coinvolgente fatta di osservazione dell’ambiente, conoscenza della cultura locale e gesti concreti. Uno di questi mi è rimasto nella mente e nel cuore e credo che ben riassuma il sentire la montagna: “Uscì con il paiolo e lo riportò pieno di neve, che mise a sciogliere per fare la polenta”.


Mi sono emozionata quando al cinema ho visto quella scena. Nella baita sommersa dalla neve, con solo una lampadina a far luce, i due amici preparano la polenta versando la farina nel paiolo e iniziando a girare lentamente. L’intero film è una narrazione fedele all’originale, in cui neanche i tempi vengono sfalsati. La recitazione di Luca Marinelli e Alessandro Borghi è sublime (buona anche la resa della parlata valdostana da parte di Borghi), il pathos raggiunge punti elevati senza scivolare nella retorica. E cosa dire della bravura dei due ragazzini che hanno impersonato Pietro e Bruno nella prima parte? L’amicizia che cresce anche a distanza e negli anni, il rapporto conflittuale tra padre e figlio, la ricerca di un senso e una direzione nella vita sono temi portanti resi in modo naturale anche attraverso i dialoghi e i tanti silenzi ricchi di espressività. Come nel romanzo, anche nel film il finale risponde a domande che affiorano lungo il racconto. La montagna è coprotagonista fino all’ultimo istante: stupenda la fotografia, riprese ampie che trasportano là nei boschi sopra Grana e sui sentieri rocciosi.

“Meglio il libro o il film?” è una domanda che spesso viene posta quando la storia è la stessa (sono numerosi i casi di libri da cui è stata tratta una pellicola, basti pensare a grandi classici della letteratura come “I quattro moschettieri”, “Cime tempestose” o “Il nome della rosa”). Me la son sentita fare anche io e – fermo restando che non esiste gara trattandosi di linguaggi diversi – non ho saputo rispondere. Il libro resta il primo amore e lo consiglio senza esitazione, questo è stato un colpo di fulmine. Il film è assolutamente da vedere… magari, meglio dopo aver letto il romanzo!

Durante una delle mie puntate su internet alla ricerca di libri ambientati in Corsica, mi sono imbattuta nel romanzo di Emma Piazza, giovane scout letteraria italiana che vive e lavora a Barcellona. Il titolo svela già alcuni elementi e il genere (diciamo un thriller perché tiene il lettore su un grado molto alto di suspence ma sarebbe riduttivo farlo rientrare sotto un’unica etichetta): L’isola che brucia edito da Rizzoli.

La protagonista è Thérèse, una trentenne italo corsa che vive a Lisbona ma torna in Corsica perché la nonna paterna “mamie” vuole lasciarle in eredità una casa. Una casa che può rappresentare la possibilità di un nuovo futuro. Un viaggio improvviso, che la porta a fare i conti con il proprio passato e con una famiglia “ingombrante” che custodisce tanti misteri conosciuti dalla gente del luogo ma di cui nessuno vuole parlare. Tutto questo succede in un momento in cui la vita di Thérèse pare riempirsi di incertezze: la rottura con il fidanzato e la vita con lui nella frizzante Barcellona, la scoperta di essere incinta che la scombussola, un lavoro in cui si sente bloccata, una famiglia con cui si sente in conflitto, la conoscenza con il suo insegnante di inglese uomo tanto fragile con una storia carica di dolore quanto importante punto di riferimento per lei. Il primo capitolo si svolge nella capitale portoghese, una città “che sembra un fiume”: mentre la ragazza racconta la sua quotidianità al fidanzato in una sorta di dialogo mentale con lui, l’inglese William mette insieme pezzi della sua tragedia fino a che decide di partire con lei per la Corsica per recuperare un tassello professionale che pensava non potesse più avere speranza. Così, inizia anche la ricerca di un talentuoso pittore di cui si sono perse le tracce. Ad accogliere Thérèse ci sono mamie e la zia Louise ma presto le cose prendono una piega inaspettata e lei incontra Pascal Chadel (chi conosce un po’ la storia corsa sa che anche il nome Pascal non può essere un caso…).

Una storia di emozioni e sentimenti che travolgono e si ribaltano, di passione e vendetta, di cadute e rinascita, di avventura e intrighi. Una storia in cui davvero si respira la Corsica, quella più profonda che vede strettamente connessi mare e montagna; una storia che ben racconta lo spirito dell’isola in cui le distanze sono amplificate dalla conformazione del territorio, dove i “paesoli” hanno vecchie case con muri screpolati, una piazza spesso deserta che si trasforma nel centro della vita sociale e appena fuori campi di ulivi e macchia mediterranea, un’isola la cui gente è fiera delle proprie origini, riservata e innamorata della propria terra. Questa è la stessa isola che ogni anno accoglie numerosi turisti, sempre più italiani ma soprattutto francesi e tedeschi, che ne restano affascinati e magari tentano di conoscerla al di là delle località consigliate da guide e tour operator. Forse anche per questo la fortuna del libro di Emma Piazza ha facilmente trovato casa all’estero: il romanzo è infatti stato pubblicato in francese per l’editore Mazarine, L’ile des derniers secrets, in tedesco per Penguin Verlag, Die Insel der letzten Geheimnisse (in queste due lingue il titolo viene tradotto in italiano con “L’isola degli ultimi segreti”), e ancora in svedese per Bokförlaget Forum, Huset på Cap Corse che può essere “La casa di Cap Corse”.

Intervistare l’autrice è stata un’occasione per entrare dentro il romanzo e condividere un po’ di Corsica, una piacevole chiacchierata…

La prima domanda nasce dalle suggestioni che lascia la lettura delle descrizioni intense, molto evocative e concrete che fai dell’isola. Quale è il tuo legame con la Corsica? 

Mio papà è corso e da quando sono piccola frequento l’isola. Non la conosco benissimo ma l’ho girata e volevo scrivere un romanzo che parlasse anche delle mie origini.

Il paesaggio gioca un ruolo fondamentale, quasi simbiotico con alcuni personaggi. Leggendo ci si ritrova tra le case e nelle campagne di Luri e addirittura pare di sentire il profumo del maquis e la salsedine che sferza la costa. Quali sono gli aspetti che hai voluto mettere in risalto?

Cap Corse (conosciuto anche come “il dito”, ndr) è l’isola nell’isola, i paesi sono un po’ isolati e sembrano disabitati, è un luogo molto selvaggio e poco turistico…  

La vendetta è un elemento intrinseco delle leggende, della storia e in un certo senso anche del carattere corso e tu l’hai messa al centro della trama, come anello di congiunzione tra diversi fili narrativi. Allo stesso modo anche il concetto di famiglia risulta primeggiare nel romanzo così come è caratteristico della cultura corsa. 

Sono scelte volute. La vendetta nasce un po’ con l’isola, specialmente in quei luoghi dove lo Stato ha faticato a radicarsi; anche Dostoevskij parlava della “vendetta corsa”. Purtroppo. I corsi si aggrappano alla famiglia, è una rete fondamentale ed ecco che è facile che in questo tessuto nascano rivalità tra famiglie. Anche per questi motivi Thérèse si sente orfana del luogo. 

Quale è stato il punto di partenza per questa storia, la scintilla da cui hai iniziato a scrivere?

Il personaggio da cui sono partita è Thérèse nel momento in cui è in crisi con il suo ragazzo. Ho voluto parlare del sentimento di una ragazza della mia generazione che fatica a radicarsi nel mondo, è libera di viaggiare ma non riesce a creare affetti stabili. Thérèse va a Lisbona, dove io sono stata per due anni ma a dirla tutta solo un anno dopo aver scritto il romanzo. Tutti i luoghi di cui parlo hanno a che fare con la mia vita. A Barcellona ho vissuto per quattro anni e ora ci sono tornata, ad esempio…  

Thérèse e William sono due personaggi fragili, che si sostengono a vicenda…

C’è una grande differenza di età tra loro; accanto alla protagonista volevo un altro personaggio con una sua voce ispirato a una figura che conosco, il mio professore di inglese. Ho voluto creare due figure che si ritrovassero e riconciliassero con la propria storia e con il luogo. Un altro tipo di fragilità è quella di Pascal, che non riesce a comunicare perché è chiuso nel suo mondo, è vittima dell’isola e della sua società embrionale e in lui, così come in tutti i personaggi, non c‘è un netto confine tra il bene e il male. Ognuno ha un doppio risvolto.   

La pittura è un elemento di redenzione ma anche una chiave per spiegare i misteri dell’isola, è un ingrediente che pare essere qualcosa di molto più potente di un espediente narrativo…

Non ho un rapporto con la pittura ma mia zia è un’artista. Ho pensato di utilizzare l’arte come strumento per comunicare il lato più istintivo ed emotivo di alcuni personaggi.

Nonza. Credits: Andrea Vassallo
Cap Corse. Credits: Andrea Vassallo

“La Corsica ha una natura assoluta, è stata creata mischiando monti, uomini e mare in un unico rabbioso splendore. Sembra che ruggisca. La Corsica ha il volto ruvido e irto di barba incolta.
Gli occhi hanno il colore della macchia, e anche il suo cuore è così intricato.
(…)È un contrasto strano quello tra la bellezza del posto e i suoi abitanti,

abituati alla solitudine, fieri di sopravvivere in questo posto dimenticato da tutti”.
(L’isola che brucia, pag 62 – 63)

Non ho mai cullato velleità da scrittrice, pur amando scrivere e scrivendo. Di tutto: articoli e recensioni, il mio diario (ebbene sì, una bella abitudine che conservo da quando ero ragazzina) e qualche volta racconti per il gusto di inanellare le parole e creare storie che per ora son sempre rimaste nel cassetto. Sì, al centro voglio mettere le storie e i luoghi. Mi ricordo che negli anni dell’università scrivevo anche poesie, qualcuna mandata a dei concorsi non tanto per “puntare in alto” quanto per cercare un parere (quasi mai avuto, ecco) che ne rivelasse una qualche bontà. E qua e là ho partecipato a corsi di scrittura creativa per provare a mettermi dall’altra parte della pagina (esperienze stimolanti), per allenarmi e cogliere nuovi stimoli.

Comunque, la scorsa estate, in montagna nella Valle del Lys (uno dei luoghi del cuore, che considero casa e la cui cultura Walser sto approfondendo), mi sono imbattuta in una iniziativa che ha smosso la mia voglia di scrivere senza chiudere in un cassetto il frutto della mia fantasia. Complice il luogo, certo. Un giorno la bibliotecaria di Issime mi ha dato il volantino di un concorso letterario aperto agli iscritti del Sistema Bibliotecario Valdostano. L’ho preso un po’ curiosa. Poi, seduta sul balcone, osservando lo sperone di montagna di fronte chiamato Pirubeck (prima o poi scriverò sul blog anche di questo luogo e della leggenda che lo abita), ho letto il bando e mi son detta: “Perché non provare?!”. In quel momento, la volontà di dare forma e parole a una breve storia che si ispirasse a quei monti è stata forte. E nei personaggi ho messo alcuni “grazie”: alla mia nipotina P., che ama stare in mezzo alla natura ricercando semi, fiori e foglie e stupendosi sempre della bellezza; ai miei nonni che mi han trasmesso l’amore per le proprie radici; agli abitanti del borgo di Issime che subito ci hanno accolto con amicizia e con cui spesso si condividono belle chiacchiere e conoscenza del territorio.

Insomma, l’ho scritto e poi inviato. Ed è stato scelto dalla giuria e pubblicato sul portale: una bella sorpresa! Qualche mese dopo mi è arrivato un libro fotografico omaggio e dei segnalibri (bellissimi!) che riportano una frase del mio racconto. Il bello però è la possibilità di partecipare a iniziative che puntano a valorizzare il territorio partendo dal locale. Viva le biblioteche e la loro intraprendenza!

Ci sono storie che confortano così come può fare una tazza di tisana calda in una giornata scossa dal vento. È questa la prima immagine che mi è venuta in mente al termine della lettura del romanzo Un inverno a Vienna di Petra Hartlieb edito da Lindau, ambientato nella capitale austriaca di inizio Novecento. Quando poi ho letto qualche cenno della biografia dell’autrice, ho compreso come il suo stretto rapporto con i libri da appassionata lettrice e libraia abbia potuto contribuire all’atmosfera che abita in particolare in alcune pagine e al carattere di quei personaggi che dichiarano il loro amore per la lettura. L’intreccio è semplice senza molti colpi di scena, ma non banale quanto piuttosto ben ancorato al contesto storico. L’ho letto a gennaio e ogni tanto mi torna in mente, per questo ho deciso di scriverne e il fatto che la vicenda si svolga in inverno come indica il titolo e culmini a Natale non ne fa necessariamente “un libro di stagione”. 

È la storia di una giovane che fugge dalle campagne, dove il padre l’aveva lasciata a lavorare lontano dalla famiglia, per recarsi nella capitale asburgica in cerca di un impiego migliore e soprattutto che non la faccia sentire in pericolo. Il suo pensiero vola spesso all’amata nonna, ai suoi insegnamenti e a un sogno che le ha lasciato in eredità. Finalmente arriva la svolta: viene assunta come bambinaia nella casa dello scrittore e drammaturgo Arthur Schnitzler. Incontra così un mondo nuovo, l’opportunità di mettersi alla prova, la letteratura, persone a cui legarsi per stima e affetto, l’amore. E il centro storico di Vienna è protagonista nella seconda metà della storia: una importante libreria, un mercatino, le strade, i ponti…

Mi sono sentita avvolta dalla scrittura delicata di Petra Hartlieb, immersa in un’ambientazione letterariamente evocativa e in scene di vita domestica scandite da piccole conquiste in cui le relazioni (formali e famigliari) sono in primo piano. Le buone letture trovano un perché sul nostro cammino, ecco quindi che l’aver letto questo romanzo in un periodo tanto complesso come quello che stiamo vivendo ha lasciato una dolce eco.    

Negli ultimi mesi, per seguire le misure anti Covid, vedersi e parlarsi online è diventato sempre più un fatto normale, sia a livello personale sia a livello professionale. Così, è cambiata la grammatica della comunicazione, ma il piacere di confrontarsi e condividere resta lo stesso. Certo, desideriamo tornare a incontrarci di persona perché manca l’emozione data dalla vicinanza fisica, ma intanto approfittiamo della tecnologia.
Ecco quindi che anche gli incontri con gli autori e le presentazioni avvengono su piattaforme di videoconferenza.

Ogni tanto (leggi due o tre volte l’anno) trascorro qualche giorno a Marina di Massa, perché lì ci sono dei cari amici e così l’occasione per una vacanzina si trasforma sempre in un ritorno a casa: il pontile sul mare e le lunghe spiagge, i paesi della Versilia dove è normale vedere gente in biciletta (ognuna con un cestino di vimini adornato di fiori in plastica o stoffa) e le piazze arredate con monumenti in marmo di Carrara sono uno scenario ormai famigliare. Così, anche in questa estate “particolare” in bilico tra il desiderio di normalità e il rigore delle misure di sicurezza anti Covid, mi sono sentita un po’ “marinella” come si dice da quelle parti.

Non è stato tempo di soli bagni (di sole e nell’acqua salata) perché mi piace andare alla scoperta dell’intorno e vengo piacevolmente accontentata. A questo giro ci siamo spinti un po’ più in là, in Lunigiana, sull’Appennino tosco emiliano, prima a Montereggio e poi a Pontremoli (luogo caro a M., che già ha fatto capolino in questo blog nell’estate 2013, qui) passando per il Passo della Cisa. E forse la scelta non è stata neppure troppo casuale dato che questi luoghi si coniugano con la parola “libro” e noi amiamo la lettura: il primo, frazione di Mulazzo, è il borgo da cui sono partiti i librai ambulanti con tanto di gerla in spalla (ne scrisse anche Oriana Fallaci in un bell’articolo del 1952 su “Epoca”), il secondo è il comune che ospita il Premio Bancarella e il terzo… bhe, lo scoprirete leggendo l’articolo.

 

Per arrivare a Montereggio, noto come “il paese dei librai”, 650 metri d’altitudine e 62 abitanti, si attraversano fitti boschi di castagni lungo una strada ricca di curve. Ci si trova in un piccolo centro sulla cima dell’altura, con case tutte di pietra e ben curate (fa eccezione un muro sventrato che guarda sulla valle ed è attrazione per chi ama scattare foto). Vicoli, vie e piazze sono intitolate a librai e editori. Non ci sono negozi se non un bar che accoglie i turisti all’ingresso del borgo dopo la chiesa vecchia fortificata dotata di feritoie e intitolata a sant’Apollinare e san Francesco Fogolla, vescovo martire nativo di Montereggio canonizzato nel 2000. All’interno della cappella, lungo le pareti sono disposti una serie di stendardi che riportano i nomi di antiche famiglie di librai originari del paese; tra questi mi è balzato subito agli occhi quello dei Fogola, non solo perché di colore blu ma perché quel cognome ai torinesi rievoca una bella libreria storica.

Infatti, fu proprio Giovanni Battista Fogola che nel 1911 (anno dell’Esposizione Internazionale) aprì un chiosco in piazza Carlo Felice, seguito da altri due e nel 1931 al numero civico 15 la Libreria Dante Alighieri; nel 1961 il più giovane dei figli inaugurò la galleria d’arte al primo piano, mentre è del 1963 la nascita della casa editrice che portava il nome di famiglia (famosa la collana “I Gialli di Fogola” ambientati tutti nel capoluogo piemontese). E se vogliamo raccontarla tutta, la manifestazione libraria torinese Portici di Carta può dirsi una discendente della “Festa del Libro” che organizzava Fogola e che  a sua volta richiama la festa che ad agosto anima Montereggio. Ma, ahinoi!, nel 2014, a causa della crisi di settore, libreria e casa editrice torinese Fogola tirarono giù la saracinesca e questo capitolo di storia si chiude.

A Montereggio resta una libreria molto particolare come segno della tradizione: un servizio curato dalla pro loco (altro elemento che parla dell’intraprendenza locale legata alla tradizione) dove ci si può servire da soli. Sugli scaffali si trovano volumi già datati accanto a intere collane, novità e finalisti del Premio Bancarella; quando si è scelto cosa comprare si lasciano i soldi in una cassetta. Ho pensato sarebbe bello che un’idea così fosse accolta da pro loco di altri comuni che non hanno le normali librerie, chissà!

Faccio però un passo indietro perché è affascinante conoscere l’origine della tradizione dei librai ambulanti. La storia racconta che il primo a lasciare il borgo per andare a Milano ad apprendere l’arte dei caratteri mobili fu Sebastiano da Pontremoli nel Cinquecento, molti lo seguirono e il culmine dell’attività si ebbe nell’Ottocento; questi ambulanti che andavano verso la pianura iniziarono dapprima a vendere libri che davano loro i Carbonari e poco per volta, vedendo il successo di questo commercio rispetto a quello delle pietre, aggiunsero lunari, almanacchi e altri tipi di libri. Quindi la gerla non bastava più e non era facile da trasportare, così passarono ai carretti (bancarelle). Di paese in città, di fiera in fiera, alcuni diventarono librai e altri editori dando vita a realtà che esistono ancora oggi e cito nomi come Giovannacci, Tarantola, Lazzarelli; qualcuno arrivò persino a Barcellona e Buenos Aires.

Il Premio Bancarella nacque a Pontremoli proprio nel 1952 (anno che ci rimanda all’articolo della Fallaci, che partecipò all’evento). La locandina di quest’anno immortala la nota sagoma di marmo del libraio con gerla di Montereggio con tanto di mascherina: insomma, un’edizione che raccoglie anche uno dei segni di questi tempi. Così, Pontremoli, è similmente considerato paese di librai bancarellai. I librai pontremolesi si davano appuntamento in primavera sul Passo della Cisa (dove si trova anche la porta toscana per la Via Francigena), che divide Lunigiana e Padania, per definire le aree di vendita di competenza di ogni famiglia e permettere a tutti di lavorare serenamente senza concorrenza. Tra i titoli che fecero circolare ci sono testi divenuti famosi come I tre moschettieri e Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata.  Per approfondirne la storia si veda la pagina del Premio Bancarella, che decretò ad esempio la vittoria e la fama nel 1953 de Il vecchio e il mare di Hemingway.

A questo punto aggiungo una nota per concludere il racconto del tour. Appena arrivata a Marina di Massa, M. mi ha dato un regalo che portava il sigillo della Antica Libreria Savi di Pontremoli: il libro che ha vinto il Premio Selezione Bancarella 2020, proclamato il 19 luglio, Le verità sepolte di Angela Marsons (Newton Compton). Che fosse un indizio per condurmi verso la nostra gita?

Premessa.

In alcuni giorni più di altri c’è bisogno di parlare di bellezza con realismo e di progetti capaci di meravigliare e di ricordare l’importanza di atteggiamenti d’animo come la fiducia e la pazienza. Ecco perché oggi ho voluto tirar fuori dal taccuino degli appunti questa storia, incontrata quasi per caso come succede con molte altre.

Antefatto.

Leggendo Corse Matin, sulla spiaggia di Calvi, una mattina di agosto mi sono imbattuta in un articolo (anzi, tecnicamente una breve) che invitava a visitare il giardino botanico fruttifero di Avapessa in un paesello nel cuore della Balagna. Subito appuntato. Che si trattasse di una nuova attrazione? Pur andando in quella regione da diversi anni e girandola oltre le mete turistiche per conoscerne storia e anima, quel jardin botanique fruitier mi mancava. Ebbi un flash: il piccolo cartello che al fondo della strada di ingresso ad Avapessa indica come raggiungerlo. Un particolare che non avevo colto e ancora non aveva destato la mia curiosità. Questa volta però, grazie al quotidiano locale, ne ho fatto la meta di un pomeriggio. Uno dei più belli della passata estate corsa.

Storia.

“Il giardino è una scuola di pazienza” esordisce Robert Kran, che circa 40 anni fa ha dato vita a questo progetto naturalistico trasformandosi in giardiniere per amore di un sogno che affonda le radici nella sua infanzia. Quello di Avapessa si può definire un giardino di sperimentazione e di collezione perché ci sono piante che provengono da diversi Paesi del mondo. Alla base ci sono alcune scelte che sembrano controcorrente: Kran non usa concimi, non pota e non sposta le piante. “Nelle colture intensive a ogni taglio l’albero perde da 3 a 5 anni – spiega l’uomo, originario di un piccolo villaggio dell’Alsazia, che nella vita ha lavorato anche come direttore commerciale – La qualità dei frutti che compriamo oggi è molto diversa da quella di alcuni decenni fa e non si pensi sia migliore: alcuni studi hanno e evidenziato come occorrano 100 mele di oggi per ottenere le stesse vitamine di una mela di 50 anni fa. Questo perché con la grande distribuzione si sono privilegiate altre caratteristiche: forma, colore e soprattutto trasportabilità”. Lui, invece, ha deciso di provare a ricercare quella ricchezza e così la natura lo ricompensa regalando sorprese: “Ci sono situazioni che sembrano inspiegabili come quella pianta che quattro anni fa è stata coricata da una tempesta ma da allora regala più frutti delle altre”.

In tre ettari, quasi ai piedi delle montagne, si trovano piante corse e mediterranee accanto ad altre che arrivano da Africa, Australia e America. Fichi e castagni, meli e cachi, noci di Pecan e due palme che possono vivere anche a meno 20 gradi, piante di diversi tipi di pepe e erbe aromatiche, alberi giunti da Algeri nel 1960 e il ginepro della valle del Fango, l’aronia che è ancora poco conosciuta dalla gente ma è molto utile per stimolare le difese immunitarie e la cannella di Magellano, la papaya e il mirto, noccioli e avocado, mandarini e clementine (quanti di voi conoscono la reale differenza tra i due?), il limone caviale (chiamato così perché ricorda il rinomato pesce e i ristoranti arrivano a pagarlo anche 300 euro al chilo), la palma albicocca e la canna da zucchero, cardamomo e zucchini siciliani, la croce di Malta (considerato il più potente afrodisiaco esistente) e l’albero ratatuille che in verità sono tre piante che riescono straordinariamente a coesistere avvinghiate insieme, il pesco dell’Uzbekistan le cui foglie sono rosse fino a metà luglio e poi diventano verdi e ulivi di 400 anni. Molti gli esemplari particolari che si incontrano: tra le 40 varietà di cachi, ad esempio, c’è una pianta che produce frutti dalla forma insolita, tanto che Kran l’ha soprannominato “caco erotico”, o ancora una pianta di pistacchi che nel 2015 è diventata ermafrodita; le varietà di fichi sono 55 e l’ultima messa a terra arriva dal giardino del Vaticano; tra le piante di pepe nero e rosa, invece, incuriosisce il “pepe dei monaci”, detto così perché era l’unico che i consacrati potevano utilizzare non essendo un eccitante.

Ogni pianta che entra nel giardino è accompagnata da un certificato sanitario, ma Kran preferisce partire dalle sementi: “La crescita della pianta dipende da diversi fattori tra cui la composizione mineralogica del terreno e il clima. Prima la tengo al riparo e quando vedo che resiste e come cresce, dopo 3 o 4 anni, la metto definitivamente a terra all’esterno – tratteggia il giardiniere – Molte piante straniere faticano a superare il primo inverno, ma quelle che ci riescono sono forti e sviluppano resistenza al freddo e si comportano come le nostre”.

Inoltrandosi nel giardino ci si ritrova sotto un grande ulivo con i rami che guardano a terra, risultato di una naturale variazione: ai piedi della pianta Kran ha messo una panchina creando così un angolo molto suggestivo in cui le coppie amano farsi una foto. Non ci sono molti sentieri né indicazioni per orientarsi, ma Kran conosce ogni angolo e accompagna i visitatori permettendo loro di scoprire profumi e facendo assaggiare la frutta che raccoglie direttamente dagli alberi. Un’esperienza che risveglia i sensi. Con una saggezza dal sapore popolare ma arricchita da studi e confronti con specialisti del settore, il giardiniere lascia crescere l’erba e la taglia solo quando è alta perché resti comunque ai piedi degli alberi: “Quello strato protegge la terra dal troppo calore e offre nutrimento, oltre ad essere ambiente privilegiato per alcuni insetti che aiutano così a preservare la biodiversità”. I primi aiutanti di questo appassionato botanico e giardiniere sono gli uccelli, per questo lui ha deciso di piantare anche arbusti in cui diversi tipi di volatili possano costruirsi il nodo e trovare riparo; fa circolare tranquillamente galline e anatre, a cui si aggiungono persino due maiali vietnamiti.

La filosofia di Kran si ispira al motto “Vivi e lascia vivere”: “Il mio modello è la foresta. Da piccolo ho avuto modo di osservarla bene e allora ho pensato che avrei creato la mia foresta. Ho atteso 40 anni per farlo, ma sono contento”. Passeggiando nel giardino l’uomo intreccia la storia di alcune piante alla sua, così si viene a sapere che oltre ad essersi rifugiato da piccolo nel fitto della boscaglia per scappare ai bombardamenti, ha combattuto anche nella guerra d’Algeria: “Nel 1962, alla fine della guerra, sono stato rimpatriato e come ultima missione mi hanno mandato in Corsica: questo paesaggio mi ha ricordato la costa algerina e mi ha colpito, ho deciso che un giorno sarei venuto qui”.

Pur immerso in questo paradiso (o proprio per la fortuna e il dovere di esserne il custode), Kran è attento a ciò che avviene intorno a lui e nel mondo: “Mi preoccupa molto il cambiamento climatico. Negli ultimi 20 anni ho notato che la neve cade sempre più in alto, con una differenza di circa 60 metri, e si ferma sempre meno – tratteggia il giardiniere – Noto differenze anche nella frutta, l’uva ad esempio è sempre più precoce e contiene sempre più zucchero. Qualche anno fa gli studiosi dicevano che in Corsica nel 2050 ci sarà il clima di Tunisi, oggi dicono che ciò avverrà nel 2035”. Quando incontra i visitatori chiede loro la professione e invita insegnanti e professionisti in ambito medico e sociale a diffondere buone pratiche in difesa dell’ambiente: “La speranza è data soprattutto dall’educazione delle nuove generazioni – chiosa – C’è bisogno che le donne prendano in mano la situazione per riuscire a cambiare il nostro modo di vivere, loro hanno capacità e intraprendenza per risolvere i problemi”.

Inizia una nuovo ciclo di incontri “Martini on the books” alla biblioteca civica di Chieri. La formula è vincente (lo scorso anno è stata la prima edizione per me nei panni di moderatrice): una bella chiacchierata con l’autore sul suo ultimo romanzo e poi un aperitivo a base di Martini tutti insieme.
Quest’anno, ci saranno Alice Basso con una nuova avventura di Vani Sarca alle prese con la sparizione del suo editore Fuschi (Un caso speciale per la ghostwriter, Garzanti); Carlo De Filippis con il suo commissario torinese Zaccaria Argenti (Il dono, DeA Planeta); Fabio Geda con la storia di una famiglia che si intreccia a un incontro inaspettato portando così a riflettere sui legami affettivi e sui rapporti interpersonali (Una domenica, Einaudi).

Lumio, paese corso della Balagne in cui è viva la tradizione dei canti polifonici corsi, famoso per l’antico villaggio di Occi e per la coltura del vino, deve probabilmente l’origine del proprio nome al latino lumen, luce. Quando si avvicina il tramonto l’immagine del borgo inizia a velarsi di rosa e con il calare della sera l’atmosfera diventa ancor più suggestiva.

“È delizioso restare immersi in questa
specie di luce liquida che fa di noi degli
esseri diversi e sospesi”
Paul Claudel 

Per scoprire un luogo occorre fare attenzione ai dettagli, camminando lentamente per afferrrarne il clima, la voce del tempo e l’anima di chi lo abita. Tante volte son passata da Lumio, paese in faccia a Calvi, spalmato sulla montagna che guarda la Balagne (leggi qui). Così, un giorno, ho trasformato un’attesa in occasione: ho girovagato per le vie senza una meta, salendo e scendendo e poi ancora salendo e ridiscendendo, fermandomi spesso per osservare case e verande, piccoli giardini e piante rampicanti, scalette e terrazzini rubati alla roccia.

Sono partita dal belvedere di fronte alla chiesa parrocchiale di Sainte Marie, costruita nel tardo 1800, un edificio caratteristico perché accanto alla facciata rosa vi sono un campanile in pietra e una cappella più vecchia, la chiesa di St. Antoine datata 1590, probabilmente appartenuta a una confraternita (ogni paese della Corsica ne ha almeno una e in passato ne contava ancora di più). Questo, il centro del paese in cui troneggia l’immancabile monumento ai caduti della Grande Guerra e da cui si dipartono più strade, alcune strette a gradoni e una poco più larga asfaltata. Su alcune case ritroviamo il rosa sbiadito, su una o due un giallo molto acceso, ma la maggior parte sono in pietra; tante hanno le imposte delle finestre blu, un colore tipico per le isole, o grigie. Quasi tutte si affacciano sul golfo con vista mare: ad ogni incrocio uno scorcio suggestivo. Da un giardino fa capolino un albero di limoni e da un altro un gigantesco glicine; palme intorno a un vecchio edificio che ricorda un castelletto e piante di rosmarino in un piccolo orto.  Le insegne istituzionali riportano la doppia dicitura, in francese e in corso. È forte il senso di identità in Corsica e, ancor più in questi paeselli, tanto che non è strano trovare su qualche cassetta della posta la scritta “Simu di Lumio!”.