Ogni anno nuovo incomincia con una lista di buoni propositi, una di progetti e una di cose belle che mi piacerebbero. Almeno per me. Le tre cose sono di sicuro legate tra di loro e scriverle in forma di elenco da una parte mi aiuta a visualizzarle meglio e dall’altra mi lascia l’opportunità di espanderle a piacere.
In verità ho sempre scribacchiato liste per lavoro sul planning (dal classico “to do” alle scadenze passando per gli articoli da scrivere e le novità in libreria da seguire) e il metodo con il tempo si è affinato (ad esempio adoro usare colori, metto sigle e nicknames, attacco post-it)… quando poi su Instagram mi sono imbattuta in @lascianca (Simona Sciancalepore) ho provato che anche grazie alle liste si libera la creatività. Non lo nego, da lista nasce lista spesso e forse questo appartiene un po’ al mio essere una “bilancina”, ma continuo ad amare la narrazione lunga e la forma discorsiva che prediligo anche su quel diario in cui appunto le liste a inizio anno.
Premessa fatta, ora vengo al punto. In una delle tre liste c’era riprendere a scrivere con regolarità su questo blog, a cui tengo (le idee son sempre tante e la mia “latitanza” è davvero solo questione di tempo perché qua e là conservo notes e file di appunti), e in un’altra lista c’era tornare al cinema a vedere un bel film. Ecco, posso mettere la spunta. Fatto!
Non tornavo in una sala cinematografica da prima del periodo di pandemia da Covid, dal Natale 2019. Non ne faccio una questione di mancanza, ho saziato un po’ la curiosità con film e serie rintracciabili in streaming. Però, tornare in una sala di fronte a un maxischermo e percepire il silenzio partecipato del pubblico presente è una bella sensazione. Avrei forse potuto riprendere prima le piacevoli uscite al cinema. Comunque, sono tornata per vedere un film tratto da un libro che ho molto amato, che amo (perché nessun libro termina nel momento in cui finisce la lettura) e che mi ha lasciato una grande eco. Le otto montagne, dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti pubblicato da Einaudi nel 2016 e vincitore del Premio Strega nel 2017.
L’ho letto due volte: la prima quando Cognetti si aggiudicò il premio, spinta dalla curiosità editoriale, dalla stupenda copertina e da alcuni consigli. Mi era piaciuto per la prosa ricca di descrizioni autentiche e dalla storia dai sentimenti forti. Da allora il mio legame con la montagna (in particolare con quella valdostana) è cresciuto e mi sono ritrovata “vicina di vallata” con i protagonisti: la storia è ambientata a Grana, che sarebbe Graines, in Val d’Ajas, dove vive l’autore. Durante le vacanze natalizie 2021 l’ho ripreso in mano e terminato proprio sui miei monti, nella Valle del Lys. Ricordo che mi pareva di percorrere i sentieri con Pietro e Bruno e di vivere alla barma (chissà se ne sarei davvero capace, di vivere in modo così spartano ad alta quota, intendo). In ogni pagina si sente forte il respiro della montagna. È una lettura immersiva, intensa e coinvolgente fatta di osservazione dell’ambiente, conoscenza della cultura locale e gesti concreti. Uno di questi mi è rimasto nella mente e nel cuore e credo che ben riassuma il sentire la montagna: “Uscì con il paiolo e lo riportò pieno di neve, che mise a sciogliere per fare la polenta”.
Mi sono emozionata quando al cinema ho visto quella scena. Nella baita sommersa dalla neve, con solo una lampadina a far luce, i due amici preparano la polenta versando la farina nel paiolo e iniziando a girare lentamente. L’intero film è una narrazione fedele all’originale, in cui neanche i tempi vengono sfalsati. La recitazione di Luca Marinelli e Alessandro Borghi è sublime (buona anche la resa della parlata valdostana da parte di Borghi), il pathos raggiunge punti elevati senza scivolare nella retorica. E cosa dire della bravura dei due ragazzini che hanno impersonato Pietro e Bruno nella prima parte? L’amicizia che cresce anche a distanza e negli anni, il rapporto conflittuale tra padre e figlio, la ricerca di un senso e una direzione nella vita sono temi portanti resi in modo naturale anche attraverso i dialoghi e i tanti silenzi ricchi di espressività. Come nel romanzo, anche nel film il finale risponde a domande che affiorano lungo il racconto. La montagna è coprotagonista fino all’ultimo istante: stupenda la fotografia, riprese ampie che trasportano là nei boschi sopra Grana e sui sentieri rocciosi.
“Meglio il libro o il film?” è una domanda che spesso viene posta quando la storia è la stessa (sono numerosi i casi di libri da cui è stata tratta una pellicola, basti pensare a grandi classici della letteratura come “I quattro moschettieri”, “Cime tempestose” o “Il nome della rosa”). Me la son sentita fare anche io e – fermo restando che non esiste gara trattandosi di linguaggi diversi – non ho saputo rispondere. Il libro resta il primo amore e lo consiglio senza esitazione, questo è stato un colpo di fulmine. Il film è assolutamente da vedere… magari, meglio dopo aver letto il romanzo!
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