“Io parlo, leggo e scrivo il piemontese prima di tutto perché è la lingua dei miei genitori e dei miei antenati, secondariamente perché – tra tante lingue studiate ed utilizzate – è l’unica che mi sia veramente spontanea e, in terzo luogo, perché mi alimenta con una letteratura che è densa dei luoghi della mia infanzia, dei detti della mia gente, delle figure retoriche classiche, ma risonanti di vita radicata in un luogo, perché mi rigenera e mi salva dall’alienazione e dall’estraneamento. È lingua mia, fatta poesia. Senza il piemontese sarei letterariamente, identitariamente e linguisticamente solo una frazione di quello che invece mi sento di essere con questa lingua abbinata alle altre nel mio dialogo ininterrotto con popoli e scrittori”. Così Sergio Gilardino, cittadino canadese e grande conoscitore di lingue ancestrali, descrive la propria passione per il piemontese.
Nato in una cascina della bassa vercellese al termine della seconda guerra mondiale, in ambiente esclusivamente piemontofono, Gilardino alle elementari è stato ripetutamente bocciato come “afasico e incapace di imparare la lingua nazionale”; nonostante ciò, è diventato il primo della sua graduating class, ha ottenuto il diploma di media superiore a San Francisco nel ’63 e poi il diploma di liceo linguistico nel ‘65 in Piemonte, con la media del 9. Il suo percorso scolastico è proseguito con la laurea in Lingue e Letterature germaniche alla Bocconi nel ‘70 e con il dottorato in Lingue e Letterature romanze ad Harvard nel ‘76; da allora, e fino al 2005, ha tenuto la docenza di Lingue e Letterature comparate all’università McGill di Montréal. Già direttore dei lavori per il grande dizionario enciclopedico della lingua Walser (2008), ora è impegnato nella compilazione del dizionario della lingua provenzale alpina e per questo ha scelto di vivere a Comboscuro, dove questa lingua è quotidianamente parlata e insegnata ai più piccoli.
Perché studiare il piemontese o altre lingue locali e dialetti in un’epoca in cui impera l’inglese come “lingua senza frontiere”?
La lezione sull’importanza sociale ed economica, prima ancora che culturale, delle lingue ancestrali l’ho ricevuta in Canada, Paese che ha conosciuto una révolution tranquille alla fine degli anni Sessanta per il riconoscimento del francese come lingua paritaria non solo nel Québec, ma dovunque nella federazione canadese. Il Canada, nei suoi cinquant’anni di bilinguismo ufficiale, ha grandemente beneficiato di questa politica multilinguistica, estesa rapidamente al riconoscimento di varie lingue amerindiane e minoritarie (tra cui l’italiano).
L’eredità linguistica italiana, in fatto di lingue ancestrali, non ha confronti in Europa e ancor oggi – nonostante la morte di moltissime delle sue lingue minoritarie nel corso degli ultimi 150 anni – essa primeggia per varietà, ricchezza e specificità di lingue regionali. Rivitalizzarle o ritardarne la perdita almeno fino a quando siano state debitamente codificate, significa – da un lato – salvare una parte integrante del patrimonio etnico-culturale dell’Italia, dall’altro offrire ai giovani un valido stimolo al multilinguismo. La conoscenza e/o lo studio di una lingua ancestrale hanno riverberazioni immediate sulla capacità dei giovani ad affrontare il mondo multilingue che li aspetta al di fuori dei sempre più angusti confini nazionali, al di fuori dei quali parlare più lingue, grandi e piccole, non è solo un’expertise, ma un’attitudine mentale indispensabile per la sopravvivenza.
L’inglese è anche una lingua ancestrale, ma a livello internazionale è un codice per alberghi, aeroporti e borse valori: la lingua ancestrale non solo non ne ostacola l’apprendimento, ma lo facilita enormemente, perché a confronto della sua straordinaria ricchezza idiomatica il globish (global English) è una lingua relativamente povera e facile da imparare.
Lei ha vissuto in diversi Paesi, per molti anni è stato docente in Canada, ma da piemontese è innamorato di questa lingua…
Vi sono due modi assai diversi di intendere l’espressione “lingua piemontese”. Come avviene con tutte le lingue, dalle più prestigiose alle più piccine, nella cerchia familiare i bimbi imparano solo un certo numero di parole e di espressioni. Mentre per le lingue nazionali la frequenza scolastica, la società e i mass-media, via via, forniscono ampliamenti lessicali notevoli, che integrano la base fornita dall’ambiente domestico, per il “dialetto” questo non è oramai più il caso: né la scuola, né l’ambiente circostante, né stampa-radio-tv-internet, lo arricchiscono in prosieguo di tempo. Ciò induce molti (inclusi quelli che parlano il piemontese in una delle sue varianti) a ritenere che non esista altro lessico che quello imparato in casa. Da qui il famigerato discrimine “lingua/dialetto”: si parla in dialetto di poche cose con poche persone, si parla in lingua di molte cose con molte persone. La realtà è che già i dizionari del piemontese nell’Ottocento (Sant’Albino, Zalli, Ponza, Pasquali, Gavuzzi, ecc.) ci presentano una panoplia lessicale di diecine e diecine di migliaia di parole, anche tecniche, politiche, militari e giuridiche, che esorbitano del tutto dalla gamma lessicale di chi il piemontese l’ha sempre e solo conosciuto come lingua dell’oralità. Gianfranco Gribaudo, autore di uno dei più ricchi ed utili dizionari del piemontese nei nostri tempi, ha annotato a mano 10.000 aggiunte alla quarta edizione del Neuv Gribàud e altrettante ne ha annotate Tòni Baudrìe (noto lirico in provenzale e in piemontese) all’ultima edizione del Gavuzzi.
Questo è l’altro volto del piemontese: lingua codificata (dizionari, antologie e grammatiche dalla fine del Settecento), lingua di re, di eserciti, di nobiltà e borghesia, di giornalismo, di romanzi, di prosa d’arte, di teatro, di civiltà e identità “nazionali”. Questo è il volto molto meno conosciuto, per cui quando si parla di “lingua sabàuda” molti non capiscono neppure a cosa si allude, inclusa la maggior parte di coloro che parlano il piemontese. Non sanno che ci sono grammatiche, dizionari, opere e studi sulla sintassi, sulla stilistica, sulla metrica. Il problema è che non lo sanno neppure i docenti e gli insegnanti, e questo è più grave, anche perché i pareri, le convinzioni, le scelte che contano sono i loro. Non sanno e non si curano di sapere che per “lingua sabauda” ci si riferisce ad una lingua millenaria (i primi documenti sono datati tra la fine del decimo secolo e l’inizio dell’undicesimo) che possiede più di centoventimila lemmi, sparpagliati in più di 70 dizionari compilati sull’arco degli ultimi tre secoli (Sette, Otto e Novecento), con un patrimonio letterario di tutto riguardo.
Molti italianisti, dottissimi nel proprio campo, ma punto in quello delle lingue ancestrali, si ritengono autorizzati a parlare ex catedra dei “dialetti”, come se questi fossero un aspetto degenere del linguaggio degli italiani cui essi debbono rimediare. Parlare il “dialetto” o parlare l’italiano, intercalando parole dialettali, è parlare male. Il rimedio è lo studio dell’italiano. Sono fermamente convinti che il piemontese, o qualsiasi altra lingua regionale, si riduca a quelle poche parole superstiti che ancora si intendono sulle labbra degli anziani. Proprio per questo lo definiscono il piemontese un “dialetto”.
Di dialettale, in queste valutazioni, c’è solo la loro cultura monolingue, ferma a vetusti principi rinascimentali, già ampiamente superati da Charles De Brosses, Melchiorre Cesarotti e Samuel Johnson nella seconda metà del Settecento e del tutto risibili se parametrati agli insegnamenti dei grandi field linguists britannici, statunitensi, canadesi, russi dei giorni nostri. Mentre la comunità scientifica internazionale ha prodotto e continua a produrre diecine di libri sulle lingue ancestrali e sulla loro conservazione, la linguistica campale italiana non ha prodotto una sola opera di breccia sulla rivitalizzazione/resuscitazione linguistica.
Quando Luca Serianni (Accademico della Crusca e dei Lincei) afferma che il “dialetto non deve essere insegnato nelle scuole”, Umberto Eco che il “dialetto” usato per argomenti seri lo fa ridere, Roberto Benigni che i concetti che lui esprime a proposito della Divina Commedia non possono essere detti in “dialetto”, rivelano un concetto che è simile a quello di chi, per farsi un’idea dell’italiano, andasse ad ascoltare i nipotini degli emigranti italiani in Australia o in Canada e pensasse che quelle poche frasi spezzate e parole residue siano tutto l’italiano.
Il malinteso è così grossolano, banale, madornale, che passa anche la voglia di mettersi a dare schiarimenti: la cultura accademica italiana è preparata e aggiornata in molti campi, ma decisamente non in quello della linguistica ancestrale. I giovani linguisti italiani veramente preparati (ve ne sono diversi e con diversi intrattengo un carteggio) hanno studiato all’estero e lì vivono ed insegnano. In patria non hanno né accoglienza, né futuro.
Beninteso, il problema è più radicato e ben più vasto. È ombelicalmente connesso con la nozione che gli intellettuali italiani hanno di “popolo”: ci potremmo tirare dentro il concetto del latino “lingua che sola può esprimere l’eccellenza letteraria” e, quello ad esso strettamente collegato, della chiesa che non riteneva che le lingue del popolo fossero atte a veicolare i messaggi biblici. Sono visioni che – con vari adeguamenti e apparenti concessioni – sono arrivate fino ai nostri giorni.
Gli intellettuali responsabili per le politiche linguistiche italiane hanno un concetto completamente errato delle lingue ancestrali: non sanno cos’è il nucleo lessicale storico, non sanno cos’è la specificità lessico-idiomatica, non parlano, non leggono e non scrivono nessuna lingua ancestrale, non hanno mai passato anni delle loro vite a codificare con metodologie induttive e sinonimiche i tesori già segnalati da Graziadio Isaia Ascoli 150 anni fa, ma – nonostante tutto ciò – si sentono autorizzati a dare pareri in qualità di esperti ai legislatori e ai dirigenti scolastici senza avere per guida altro che il loro inveterato horror dialecti.
Il problema si perpetua perché chi non sa è chiamato a prendere decisioni e chi sa viene ostracizzato come “dialettofono”: e nel frattempo svaniscono nel nulla gli ultimi tesori del patrimonio linguistico italiano.
* L’intervista con Sergio Gilardino continua: nella senconda parte si parlerà dei suoi studi sul provenzale e si conoscerà la realtà di Comboscuro *
Mi permetto di segnalare che in varie università italiane esistono cattedre di Dialettologia, il cui oggetto di studi e di ricerca sono appunto i dialetti e la loro ricchezza.Mi pare strano che il Prof. Gilardino non lo sappia. E’ vero, come dice Gilardino, che lo studio della linguistica in Italia, come del resto moltissime altre discipline accademiche, non è certo al top. La si studia (e la si insegna) in modo arido, meccanico, del tutto inutile, scrivendo inutili articoli su inutili etimologie. Inutili perché appunto ci si ferma all’analisi etimologica senza poi farne molto di più. Tassonomie che non vengono poi applicate ad analisi ulteriori. So quel che dico perché ho avuto a che fare per anni col mondo dei linguisti e non è una genia che mi piace. Comunque il concetto di dialetto è un concetto molto elusivo. C’è però anche da dire che non meno elusivo è il concetto di lingua ancestrale. Non tutti hanno una lingua ancestrale. Io per esempio non parlo nessun dialetto, anche se ne capisco molti, perché nella mia famiglia d’origine nessuno parlava un dialetto.
Gilardino credo che attualmente sia il miglior “interprete” della lingua piemontese,
lingua non facile da scrivere correttamente per la maggior parte dei piemontesi che abitualmente la parlano, causa appunto della pressochè nulla presenza nelle scuola dell’obbligo. Personalmente ho iniziato ad approfondire qualcosa da poco tempo, avendo avuto la fortuna di incontrare personaggi come il prof. Tòni Baudrìè (detto Bàrba Toni), il prof. Gilardino (ad una festa del Piemonte di anni fà a Cherasco) Il caro amico Batista Cornaija, Berto d’Sera e altri personaggi che si danno da fare per la sopravvivenza della lingua dei nostri avi.
Infine,col nome che indegnamente mi ritrovo, non potevo farne a meno! :-))
Pare proprio che a salvare il piemontese ce la metta tutta il Canada.
Gilardino in quella terra ebbe la fortuna di incontrare Gianrenzo Clivio, titolare della cattedra di linguistica all´università di Toronto e certo una delle massime autorità sulla lingua piemontese fino alla sua scomparsa nel 2006, se non vado errando.
Condivido quanto dice della importanza delle lingue minoritarie.
Altrettanto sembra dire la repubblica Italiana che difende le lingue minoritarie… con la beffa che non riconosce la lingua piemontese come tale ma definendola come un dialetto dell’italiano. Somma ignoranza in quanto l’italiano è una lingua neo latina orientale mentre il piemontese è una lingua neo latina occidentale (simile all’occitano e al francese).
Per fortuna l’interesse per la lingua Piemontese da segni di risveglio. Molti sono i corsi e molti sono i siti che tengono viva la lingua e le sue tradizioni.
Suggerisco un sito:
http://www.mepiemont.net/ (garzie Beppe)
e magari un salto a questa pagina:
http://www.zabot.it/piemonteis/
MOLTO INTERESANTE QUESTO ARTICOLO…COMPLIMENTI A TUTTI I PROFESSORI CHE INSEGNANO A NON PERDERE LA LINGUA PIEMONTESE.
PENSO CHE IL PROF GILARDINO È UNA EMINENZA IN QUESTO ASSUNTO
Oscar Cambursano
Querido y bien valorado Sergio, cada dia me siento mas orgulloso de haber sido alumno tuyo, has abierto una amplia puerta en nuestros conocimientos, y nos diste el empuje que necesitabamos para aumentar el amor a nuestras raices. Mas conocemos de tus cosas MAS TE VALORAMOS
Siamo tutti orgogliosi di essere stati alunni di Sergio. Aspettiamo e speriamo che ritorni presto da noi in Argentina.
Io non sono un esperto ma critico la politica per aver fatto riconoscere come lingua il friulano. In alcune scuole ,mi pare , venga anche insegnato. Ora devo ricredermi.Il fatto è che a scuola non volevano sentir parlare di dialetti . La scuola degli anni’ 50 li considerava volgari tant’è che io che provenivo da Fiume (italiana) all’esame di 5^ elementare in un paesino del Friuli ,ma che ,evidentemente parlavo l’italiano meglio degli altri candidati , avevo avuto un battimani della Commissione d’esame. Mi sovvien un aforisma nella lingua friulana :” Ogni dì si fas le lune, ogni dì s’impare une”. Renato Cappellari-Udine
Grazie per il commento, in cui ritrovo una cosa che anche altri mi hanno raccontato: negli anni ’50 i dialetti non erano culturalmente valorizzati e la scuola puntava sull’italiano; ora, invece (giustamente a mio parare), si tende a riscoprire tradizioni, radici e dialetti che di sicuro fanno parte di un patrimonio socio-culturale da non perdere…
Cari amici di Altri Italiani,
permettetemi di intervenire per esprimere il mio gradimento ed apprezzamento per lo scritto del Professor Gilardino.
Sono bolognese, ho 80 anni e vivo a Monte-Carlo.
Il bolognese é stata la lingua che si parlava ai tempo della mia infanzia attorno a me; tuttavia allora gli adulti non parlavano dialetto con i bambini; questi andavano a scuola e non dovevano essere bocciati in italiano.
Comunque ora qualche parola intraducibile la tengo ancora con me e a Monaco ne faccio un uso complice con mia moglie: lei non é italiana,ma, quando é venuta a Bologna, qualche parola l’ha imparata.Rimpiango comunque che anche l’idioma bolognese sia in estinzione e che non lo si insegni da nessuna parte.
Non é di questo tuttavia che volevo parlare, ma segnalare a Sergio Gilardino che da Monaco ho preso una proprietà nel Piemonte profondo.
Ne ho ascoltato spesso il linguaggio, e avendo un piccola casa editrice ho deciso di dare un contributo alla “piemontesità” pubblicando in tale lingua le preghiere del Papa.
“Au ciàm ad preghè per me”
Papa Francesco
Liamar Editions
Se il prof. Gilardino , tramite questo sito, mi fa avere un indirizzo postale saro’ lieto di fargliene omaggio.
Agli amanti del piemontese segnalo la casa editrice
http://www.liamaredtions.com
Un saluto a tutti
Mauro Marabini
Grazie per il commento e farci conoscere la sua casa editrice; come forse avrà letto nella mia bio su questo sito, anche io mi occupo di editoria e curioso volentieri tra i titoli… Non so se il professor Gilardino segue ancora questo blog (l’intervista risale al 2011 e io non ho sue notizie da un po’), ma sono lieta di fare da tramite scrivendogli per segnalargli il suo sito così potrete scrivervi direttamente
Ammiro molto Gilardino. Questa è la seconda volta che posto nella mia Pagina FB un suo intervento, al fine di farlo conoscere agli affiliati. Quando egli scrive della massa di esperti “autorizzati a dare pareri ai legislatori e ai presidi senza altra guida che l’horror dialecti”, sono perfettamente d’accordo che tale prassi sia uno scandalo di proporzioni planetarie.
Però proporrei una minima correzione/aggiunta dov’egli scrive che “la linguistica campale italiana non ha prodotto una sola opera di breccia sulla resuscitazione linguistica”. Infatti mi permetterei di ricordare che Mario Puddu ha prodotto un ottimo Dizionario Sardo con 130.000 vocaboli ragionati ed ampiamente illustrati (che non sono pochi, almeno per un’isola dimenticata); mentre io l’ho seguito con il Nuovo Dizionario Etimologico della Lingua Sarda. Per meglio ragionare sulle ETIMOLOGIE (cui anche Gilardino ha fatto cenno), amerei fosse sgombrato il campo dai troppi equivoci e incomprensioni che sinora hanno martirizzato (sì, martirizzato) questo campo d’indagine, creando una autentica catastrofe negli studi linguistici: una catastrofe che richiede uno sforzo poderoso e competente al fine di risanare l’intera questione nel futuro. Ci sono due punti fermi da cui partire: 1)radiare l’ASCIENTIFICA prassi che intende come “etimologia” la comparazione tra voci simili o uguali nell’ampio campo chiamato “indoeuropeo”; infatti questa prassi merita di essere definita soltanto COMPARAZIONE TRA VOCABOLI, non certo “etimologia”. 2) Inoltre occorre riappropriarsi del significato greco di ETIMOLOGIA e scendere alla base (alla vera BASE) delle lingue, esattamente alle lingue arcaiche mediterranee dalle quali provengono tutte le voci chiamate “indoeuropee”. Io infatti sto creando il Dizionario Etimologico delle Lingue Mediterranee.
Quanto ai dialetti (o lingue) tipo Napoletano, ancora oggi rimango stupito che gli studiosi dell’Università di Napoli non abbiano compreso appieno che il Napoletano non è altro che l’esito dell’antica lingua osca. Sinché nessuno andrà a porre ordine nel guazzabuglio campano per ricondurci all’origine dei parlari campani, mancherà un sostanziale contributo alla ricomposizione della lingua italiana. Non parliamo poi del Siciliano. Ognuno faccia la sua parte. Ma temo che siano ancora poche le persone decise a creare una falange d’urto contro le Accademie e contro gli Aristotelici..