Ci sono luoghi che si trasformano, che raccontano di come l’uomo li ha prima abitati e poi abbandonati, luoghi che entrano nella storia personale e collettiva. “Gli spazi fisici in Italia sono davvero delle cartine tornasole su cosa sta accadendo”, ha affermato lo scrittore Giorgio Vasta moderando l’incontro “Tra luoghi che non sono più e non sono ancora” all’interno della rassegna Scrittori in Città di Cuneo intitolata quest’anno “Terra, Terra!”. Insieme a Vasta si sono confrontati altri due scrittori con i rispettivi “reportage affettivi se non addirittura affettuosi verso i luoghi”: Giancarlo Liviano D’Arcangelo, autore di Invisibile è la tua vera patria (Il saggiatore), e Antonella Tarpino, che ha scritto Spaesati (Einaudi). “In questi due libri l’esperienza è quella di chi non è arrivato ed è passato dopo un’occhiata generale, ma di chi ha deciso di continuare a guardare e riconoscere nello spazio la metamorfosi che il tempo ha operato” ha sottolineato Vasta.
Ci sono baite disabitate o fabbriche in disuso che ora “scontano una sorta di invisibilità”; parlarne significa recuperarne la memoria. Così nel libro di Tarpino si può leggere la storia della borgata alpina Paralup del cuneese e in quello di D’Arcangelo si osserva la città di Ivrea profondamente segnata dall’esperienza olivettiana. “Nel viaggiare e vedere luoghi abbandonati ci si deve confrontare con una sorta di alterità e si capisce che nell’alternanza di vuoti e pieni lo scrittore deve colmare proprio dei vuoti usando le tracce che vede – spiega D’Arcangelo – Dentro un luogo spesso la storia collettiva incontra la storia personale proprio grazie a un elemento che pare fuori periodo storico”. Per alcuni luoghi si riesce per fortuna a percepire una sorta di seconda vita che trasmette una “sensazione di memoria virtuosa” come la definisce Tarpino: un esempio è la cascina di San Lorenzo di Guazzone nel piadenese, in cui si assiste “a una forma di meticciato culturale, un luogo dismesso e poi recuperato da una famiglia indiana che opera nella mungitura”.
Dall’osservazione alla narrazione. “I luoghi vengono abbandonati ma qualcuno ci si riaccosta e decide di farli rivivere attraverso i racconti – ha aggiunto Vasta – Nell’incrocio virtuoso tra lessico e linguaggio ci può essere la comprensione del racconto degli spazi in abbandono”. La narrazione è così uno strumento per dare nuova linfa ai luoghi abbandonati secondo D’Arcangelo, mentre per Tarpino scriverne significa “prendersi cura dei luoghi e dare loro forma”. Perché “la memoria è un investimento sul futuro“.
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